Mariangela Sglavo dice

(english)

Mariangela Sglavo ha scritto un articolo (pubblicato anche dal sito www.sirialibano.com) riguardo l’esperienza della morte di un caro amico, attraverso lo schermo gelido di un computer.

La morte di un amico in streaming: Tamer al ‘Awam

Vi è mai successo di poter scegliere quando vedere la morte di un vostro amico in streaming? A me, purtroppo, sì.

Tamer al ʻAwam è deceduto ad Aleppo lo scorso 9 settembre. Girano in rete parecchi video in cui viene ripreso, sia da vivo che da morto. Ma qualche giorno fa sono riuscita a rintracciare la reporter che era con lui quando, in seguito ad un’esplosione, è stato ferito a morte. Nel suo account privato di Youtube ci sono altri filmati di Tamer, che lei stessa ha registrato.

Me ne sto lì, con quel video caricato per metà davanti agli occhi, a cercare il coraggio per fare “click” con il mouse. Dovrei considerarlo drammatico questo momento? Fingere di stare in ospedale con lui, a stringergli la mano? E poi… È veramente necessario vedere questi video? Mentre decine di domande si affollano nel mio cervello, mi accendo una sigaretta e metto “play”.

Forse sì, il momento è drammatico e reca in sé un’incomprensibile sacralità, seppur digitale. Si parla comunque della morte di qualcuno che sedeva sul mio divano. Invece ora, da questo stesso divano, lo sto guardando morire. È addirittura meno di nulla quello che posso fare per salvarlo. Lui è lì, davanti a me, ma tutto è già successo. Che cosa assurda è la tecnologia, perfino la morte di un amico diventa virtuale.

Il video è della migliore qualità, come quella delle foto che gli scattavo mentre bevevamo un bicchiere di vino insieme. L’obiettivo lo riprende in primo piano mentre esala i suoi ultimi respiri. Ci sono anche altri filmati su questo profilo di Youtube. Uno si intitola: Tamer the evening before. Lo guardo, sorridendo, mentre chiacchiera e gesticola: racconta in maniera cinica e sarcastica uno dei suoi tanti aneddoti che ti fanno ridere, anche se con amarezza, della brutalità delle carceri siriane che lui stesso aveva sperimentato.

Ne ho visti altri di video suoi in rete, perfino quello in cui gli facevano l’ultimo disperato massaggio cardiaco. Eppure questi video sono diversi, perché gli occhi di chi ha in mano la telecamera sono quelli di una sua amica. Quindi, è come se fossero i miei. In uno è in un letto di ospedale, coperto da un telo pieno di sangue, soprattutto nella parte inferiore del corpo, quella lesionata a morte dalla scheggia di una bomba. Macchie rosse a terra. Sì, le sue.

Ci sono anche altri due video: before the explosion e after the explosion. Secondo la logica dovrei cliccare innanzitutto il primo, ma c’è forse logica in quello che vi sto raccontando? No.

In after the explosion una telecamera affannata lo riprende mentre viene portato via da due uomini, sole di mezzogiorno aleppino, pieno e luminoso. Fa caldo. Di sottofondo alle urla successive al frastuono della bomba, solo il rumore di polvere che si alza, a sporcare l’aria. La telecamera si gira intorno: è uno sguardo che cerca aiuto, inquadra il muro, fino all’alto, non c’è via d’uscita. Il respiro forte della ragazza che riprende mi fa aumentare il battito cardiaco. Due minuti e 32 secondi di terribile attesa e spaesamento.

Saliamo in macchina. “Yalla, yalla! – grida una donna – Presto!”. Partiamo. Via, veloci. Lo chiamano per nome “Tameeer, Tameeer”. Non risponde, diamine, non risponde. Sembra un film. Magari fosse un film. Lo tirano fuori dalla macchina per farlo entrare in una casa dove hanno ricavato un ospedale di fortuna, è pieno di sangue. La ferita è davvero larga. Ho saputo che lì dentro c’era un medico. Ho saputo anche, purtroppo, che non era un chirurgo.

In before the explosion il punto di ripresa è lo stesso del dopo l’esplosione, ma invece guardandolo so già cosa sta per accadere. Vorrei bloccare il video, stoppare il tempo, clicco “pausa” e, per un momento, penso di averlo fermato per davvero: mi sento onnipotente, come se potessi cambiare quel maledetto futuro.

Arriva una macchina, ci sono tre uomini armati dell’Esercito libero. Tamer al ʻAwam era lì per riprenderli, per raccontare che si tratta di civili costretti ad impugnare le armi a causa della violenta repressione da parte dell’esercito di Assad, seguita alle manifestazioni pacifiche degli albori della rivoluzione. Era lì per potercelo riportare. È morto lì per questo ed è giusto che se ne parli. Vedo le facce rilassate, nonostante le pieghe della preoccupazione della guerra segnino il volto, di chi è lì e non sa cosa lo aspetta. Un ragazzo sorride, addirittura, e saluta alla telecamera.

L’ultimo video è il più lungo, quello del suo funerale. Una veglia di 14 minuti e 47 secondi, in cui guardo le immagini e mi ricordo di lui, delle mille cose vissute insieme. Il tutto attraverso lo schermo gelido di un laptop.

Cinque fiorellini sulla fronte, un lenzuolo che lo avvolge. Un imam recita le ultime preghiere. Lui nemmeno era musulmano. Ma vaglielo a spiegare in tempo di guerra, valla a trovare una sepoltura alternativa, ma comunque dignitosa, per un familiare o un amico che non era troppo devoto.

Viene messo in una cassa di legno, la chiudono. Lo portano in processione al cimitero. La lapide è un pezzo di pietra con su scritto il suo nome con un pennarello nero. Splende il sole sulla sua tomba, sui fiori rosa lì accanto. Sepolto. Riposa.

Subito penso al dopo. Mi viene in mente la reporter, sua grande amica, che ora dovrà ritornare in Europa attraversando illegalmente il confine turco, ma senza di lui. So che è tornata perché mi ha dato questi video. So che sta bene. Ma l’angoscia se penso che ha lasciato la Siria, da sola, mi fa tornare l’affanno. Cosa sia la morte dopo un’esperienza del genere, lei lo ha decisamente capito. Io, invece, l’ho vista online.